Sono passati dieci anni da quando il Parlamento Olandese ha autorizzato l’eutanasia. Fu il primo a legalizzarla e a riaccendere dopo diversi anni il dibattito; da allora molte altre nazioni hanno detto “Si” alla “dolce morte”.
Senza alcun dubbio è un problema bioetico di notevole complessità, poco adatto ai ferrei e irrinunciabili convincimenti di parte. Da un lato la nostra coscienza di individui moderni, laici e illuministi sensibili, ci porta a pensare che siamo i proprietari della nostra vita, libera di condurla come ci piace e pertanto anche di interromperla quando l’esistenza ci appare troppo dolorosa o priva di significato. Dall’altro la nostra anima cristiana, cattolica e romantica, ci avverte che la sfera del razionale non può spiegare tutto, che la vita possiede un valore incommensurabile che nessun dolore fisico e problema psichico può scalfire.
In altre parole, in alcuni momenti ci scopriamo a pensare che non possiamo escludere l’esistenza di un Dio cui dobbiamo rendere conto e a cui dobbiamo la vita, così percepiamo il suicidio (e l’eutanasia è una forma di suicidio) come un peccato.
Come possiamo facilmente intuire, conciliare e armonizzare questi due poli dialettici all’interno della nostra coscienza non è compito facile. Oltretutto dolore e morte sono temi con cui l’uomo contemporaneo non ama intrattenersi, che piuttosto preferisce rimuovere ed esorcizzare “stordendosi” nell’edonismo della vita quotidiana.
È anche vero che i distingui da operare sono tanti e che pertanto è difficilissimo generalizzare. Alla società moderna vengono chiesti sensibilità e un diffuso senso di responsabilità, ma se per esempio la persona in questione fosse incosciente ? Chi decide ?
E qual è il confine fra legittimo intervento sanitario per salvare una vita e quello che viene definito accanimento terapeutico ?
Come si fa ad affidare un vita alla discrezione di un comitato di medici e infermieri, ai calcoli economici degli amministratori e agli interessi, a volte egoistici, dei familiari ?
Non può succedere al contrario di quello che spessi si pensa, che chi soffre anche intensamente, sia ancora fortemente attaccato alla vita ?
In tal caso credo che chi decidesse al suo posto, che per lui è arrivato il momento di lasciare questa terra, non gli darebbe una “buona morte”, ma commetterebbe un ingiustificabile omicidio.
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